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Luci e ombre della riforna del 3+2 nel nuovo Rapporto della Fondazione Agnelli presentato a Roma

La riforma del 3+2, introdotta nel 2000 per fare convergere l’università italiana sul modello europeo di istruzione superiore (bachelor+master), ha conseguito alcuni degli obiettivi che si proponeva: (a) c’è stata una significativa crescita del numero dei laureati (208mila nel 2010 contro i 161mila del 2000) e della loro percentuale sulla popolazione in età lavorativa (superiore oggi al 14% contro il 9% del 2000): in questo modo si è cominciato a ridurre lo storico ritardo in capitale umano che ancora oggi, tuttavia, separa l’Italia dai paesi più avanzati in Europa e nell’Ocse; (b) i laureati post-riforma ottengono più in fretta il loro titolo: in media a 26 anni per i triennali, a 27 per i magistrali, con un guadagno rispettivamente di oltre due anni e oltre un anno nei confronti dei laureati del 2000; (c) si è allargata la base sociale degli studi universitari, quanto meno al primo livello: oggi ai corsi triennali accedono giovani appartenenti a gruppi sociali in precedenza esclusi e più del 70% dei nuovi laureati portano il primo titolo in famiglia; (d) i nuovi laureati, infine, vengono assorbiti dal mercato del lavoro e hanno tassi di disoccupazione inferiori a quelli dei diplomati (nel 2010, 4,5% vs 7% per gli uomini, 6,9% vs 9,3% per le donne).
Un pieno successo, dunque? No, perché un bilancio critico della riforma del 3+2 rivela anche diverse ombre. In particolare, (i) se i nuovi laureati trovano lavoro (anche per l’azione concomitante di forme contrattuali più flessibili), lo trovano, però, a condizioni meno favorevoli di prima: il loro vantaggio retributivo sui diplomati si è sensibilmente ridotto, almeno nei primi anni di carriera lavorativa; (ii) il sistema economico italiano non ha, inoltre, fatto registrare apprezzabili miglioramenti di produttività e di capacità innovativa in seguito all’immissione del nuovo capitale umano, né è facile comprendere – specie in anni di crisi – se ciò sia dipeso da una preparazione inadeguata dei nuovi laureati (suggerita anche da tassi di prosecuzione dalla triennale alla magistrale troppo elevati, in media del 52%, con grandi differenze fra le aree disciplinari) o dall’incapacità delle imprese di sfruttare al meglio le nuove risorse umane a loro disposizione, come rivela anche la difficoltà dei datori di lavoro di distinguere fra i diversi tipi di laurea.
Di queste criticità della riforma del 3+2 è certamente un sintomo preoccupante la flessione delle immatricolazioni registrata negli ultimi anni, dopo la prima fase di entusiasmo e grande espansione nella prima metà del decennio precedente: gli immatricolati erano il 56% dei 19enni nel 2003-4, sono scesi al 47% nel 2010-11.

Sono questi, in estrema sintesi, i risultati di ricerca del Rapporto I nuovi laureati. La riforma del 3+2 alla prova del mercato del lavoro realizzato dalla Fondazione Giovanni Agnelli e pubblicato da Laterza. Il Rapporto è stato presentato il 24 gennaio a Roma dal direttore della Fondazione, Andrea Gavosto, presso la sede Laterza. All’incontro hanno partecipato Elsa Fornero (ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali), Marco Mancini (presidente della CRUI), Alessandro Laterza (amministratore delegato Laterza) e Maria Sole Agnelli (presidente della Fondazione Agnelli).
Il Rapporto, nel presentare un primo articolato bilancio della riforma del 3+2 a 12 anni dalla sua implementazione, sottolinea che il nuovo ordinamento degli studi universitari, oggi a regime dopo alcuni anni di transizione, non ha ancora dispiegato pienamente i suoi esiti sul mercato del lavoro: i nuovi laureati sono, infatti, all’inizio del loro percorso lavorativo ed è prematuro stabilire se e quanto un titolo di studio conseguito dopo la riforma li abbia avvantaggiati. In ogni caso – alla luce del ritardo italiano in capitale umano e nonostante le difficoltà presenti – tutto fa ritenere che l’investimento in istruzione superiore resti fondamentale, per i giovani, le famiglie e il sistema economico. Il tempo trascorso dall’avvio della riforma del 3+2 è, invece, sufficiente per affermare che le sue finalità e il suo impianto non fossero mal concepiti, ma che invece siano stati carenti e insoddisfacenti i processi di governo, controllo e valutazione che avrebbero dovuto orientare e favorire la sua corretta realizzazione. Molti atenei hanno abusato dell’autonomia universitaria e delle opportunità offerte dalla riforma per dare luogo a una moltiplicazione di sedi, corsi, insegnamenti e soprattutto docenti che non trovavano piena giustificazione nei flussi, pure crescenti, delle immatricolazioni, né nelle domande formative dei nuovi iscritti, rispondendo piuttosto a logiche corporative tutte interne all’università.
La principale raccomandazione strategica che deriva dal Rapporto della Fondazione Agnelli è che per realizzare pienamente gli obiettivi della riforma del 3+2 occorre differenziare il sistema universitario, distinguendo più nettamente tra formazione di base triennale (liberamente accessibile e con vasta diffusione territoriale), formazione professionalizzante (specifica ad alcune realtà territoriali, con maggiori gradi di libertà gestionale, minor finanziamento pubblico e un ampio coinvolgimento del sistema delle imprese) e formazione magistrale/dottorale. Soprattutto a quest’ultimo livello non è, infatti,  ragionevole che tutti continuino a fare tutto. L’offerta specialistica dovrà, perciò, essere erogata solo in poche e selezionate sedi, accreditate sulla base della loro capacità di ricerca e sostenute dal finanziamento pubblico, con un accesso limitato soltanto agli studenti migliori. In questa prospettiva, che comporterà una maggiore mobilità degli studenti, sarà prioritario intervenire efficacemente sul diritto allo studio, mettendo a disposizione soluzioni e risorse per dare anche a chi proviene da gruppi sociali meno favoriti l’opportunità di arrivare al più alto livello della formazione universitaria.
Scarica la presentazione di Andrea Gavosto e una selezione della Rassegna stampa.