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Si parla di dispersione scolastica: a seguito di recenti uscite stampa sul tema, un intervento di Andrea Gavosto sulle modalità di definizione dei numeri di questo fenomeno complesso. Riprendiamo qui l’articolo completo pubblicato  il 29 settembre 2018 su Tuttoscuola a questo link

La dispersione scolastica in Italia è stata di recente oggetto di due nuove letture. La prima è l’aggiornamento periodico di Eurostat, l’ufficio di statistica dell’Unione Europea, con consolidati criteri e indicatori che permettono confronti fra nazioni. A partire dai dati Istat, la rilevazione segnala una tendenziale diminuzione degli abbandoni precoci; in anticipo rispetto alla scadenza del 2020, l’Italia ha raggiunto l’obiettivo fissato di scendere sotto il 16% di 18-24enni che hanno lasciato il sistema senza conseguire, dopo la scuola media, almeno un diploma o una qualifica: oggi siamo al 14% di earlyleavers, come li chiama Eurostat.

L’altra lettura viene da un dossier di Tuttoscuola, intitolato “La scuola colabrodo” e ripreso da una copertina choc de “L’Espresso”. In questo caso la situazione appare molto più drammatica: i dispersi sarebbero tra un quarto e un terzo della popolazione studentesca che si iscrive alla scuola secondaria di II grado. Un catastrofico “fallimento formativo”. Anche le situazioni regionali appaiono molto diverse. Eurostat segnala che la dispersione è più contenuta al Nord e al Centro (con casi virtuosi come quello del Trentino dove gli earlyleavers sono solo il 7,8%), mentre al Sud si presenta con maggiore gravità. Di segno opposto la lettura di Tuttoscuola: “emergono situazioni sorprendenti che vedono sopra la media nazionale della dispersione importanti regioni (…) come la Lombardia”. O ancora “due importanti regioni del Sud, Calabria e Puglia, registrano tassi sotto la media nazionale”.

Abbiamo, dunque, due interpretazioni molto diverse dello stesso fenomeno. Com’è possibile? Tuttoscuola ha scelto di definire la dispersione come la differenza tra gli iscritti al primo anno e gli iscritti – cinque anni dopo – all’ultimo anno dei soli istituti di secondaria di II grado statali. Questa metodologia sovrastima il fenomeno perché:

  • non considera le scuole superiori paritarie (oltre 100.000 iscritti complessivi): perciò, ogni studente che si trasferisce da una statale a una paritaria – non importa se un istituto religioso, una scuola internazionale o una di quelle specializzate a recuperare chi non riesce a tenere il passo nelle scuole statali – viene comunque considerato un disperso;
  • non considera l’esistenza nelle regioni di un articolato sistema di istruzione e formazione professionale (IeFP): anche qui uno studente che lascia – ad esempio – un istituto tecnico per approdare a un corso regionale, che gli darà una qualifica formativa riconosciuta dal mercato del lavoro, è considerato comunque disperso;
  • non contempla la possibilità di rallentamenti (bocciature) all’interno del percorso statale: così chi perde un anno, ma prosegue ripetendo,finisce per aumentare la dispersione della propria coorte, riducendo però quella della coorte successiva.

Al tempo stesso, Tuttoscuola rischia di sottostimare la dispersione su scala nazionale perché:

  • assume che per abbandonare il sistema si debba necessariamente passare dall’iscrizione al primo anno delle superiori. Ma ci sono situazioni in cui purtroppo lo studente non arriva neppure lì, con abbandoni che avvengono dopo pluri-bocciature alla scuola media;
  • equipara l’iscrizione all’ultimo anno alla conclusione del ciclo secondario; ignora dunque la possibilità di non ammissione – circa il 4% degli scrutinati – e i pochi bocciati all’esame di Stato.
  • non considera Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige, le cui scuole sono fuori dal sistema statistico su cui si basano le stime, azzerando implicitamente la (pur piccola) dispersione in queste regioni.

Di queste scelte metodologiche – che cumulandosi finiscono a mio avviso per restituire una fotografia piuttosto parziale del fenomeno – la più rilevabile pare quella relativa all’IeFP. Questi percorsi regionali, che portano alla qualifica triennale e al diploma professionale (quarto anno), sono infatti nati proprio con la principale finalità di contrastare la dispersione scolastica. Con la Riforma Gelmini sono diventati ordinamentali nel secondo ciclo di istruzione e formazione e in alcune regioni hanno peso rilevante: ad esempio, in Piemonte oggi frequenta percorsi IeFP il 9,4% dei 15enni, l’11,2% dei 16enni, il 7,6% dei 17enni (fonte IRES). E valori analoghi si possono rilevare in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana. Questa assenza spiega perché il dossier finisca con il proporre la Calabria come modello virtuoso e la Lombardia come modello vizioso di contrasto alla dispersione, sfidando quello che ci raccontano altre fonti e la percezione comune.

In conclusione, è meritevole tenere alto il livello di attenzione di opinione pubblica e politica sulla questione della dispersione, come fa Tuttoscuola. Tuttavia, la metodologia seguita dal dossier rischia di dare un rappresentazione non compiuta del fenomeno, sovrastimandone la dimensione, e di sottovalutare i progressi che i sistemi di istruzione e formazione nazionale e regionale hanno compiuto nella lotta all’abbandono scolastico.

Andrea Gavosto